Messaggio per la Giornata Mondiale del Teatro 2016
Anatolij Vasil’ev
regista teatrale di fama internazionale e docente di teatro russo
C’è bisogno di teatro? Lo chiedono migliaia di operatori teatrali delusi e milioni di spettatori annoiati. Perché ne abbiamo bisogno? In anni in cui la scena è così insignificante al confronto con ciò che succede nelle piazze delle città e nelle regioni ove si consumano le vere tragedie della vita. Cosa è per noi il teatro? Palchi dagli stucchi dorati, poltrone di velluto, quinte polverose, voci impostate; ovvero, al contrario, scatole nere, imbrattate di sporcizia e di sangue, ammassi di corpi rabbiosi e nudi. Cosa può dire il teatro? Tutto! Il teatro può dire tutto. Sia come gli dei vivono nei cieli; come i reclusi languiscono nelle grotte; come la passione può elevare e l’amore distruggere; come non ci sia spazio per i buoni, e regni l’imbroglio; come ci sia gente che vive nella sua casa, mentre dei bambini vivono nei campi profughi, e altri sono ricacciati nel deserto; come ci si separi dai propri cari. Il teatro può parlare di tutto ciò. Il teatro è sempre stato e ci sarà per sempre. Nei prossimi cinquanta, settanta anni, il teatro sarà particolarmente necessario. Perché, di tutte le arti rivolte a un pubblico, è solo il teatro che passa da bocca a bocca, da occhio a occhio, da mano a mano, da corpo a corpo. Il teatro non ha bisogno di un intermediario fra persona e persona. È una parte trasparente dell’universo, né sud, né nord, né oriente, né occidente. Brilla di luce propria, da tutte e quattro le direzioni, immediatamente comprensibile da chiunque, nemico o amico. C’è bisogno di ogni specie di teatro. E fra le molte e diverse forme di teatro, quelle arcaiche saranno le più richieste. Il teatro rituale non ha bisogno di contrapporsi a quello delle civiltà avanzate. La cultura secolare sta perdendo la sua funzione; la cosiddetta informazione culturale subentra di soppiatto alle realtà semplici, ci impedisce di incontrarle. Il teatro è aperto. L’ingresso è libero. Al diavolo i gadget e i computer: andate a teatro, occupate le file in platea e in galleria, porgete orecchio alla parola e osservate attentamente le immagini viventi. Davanti a voi c’è il teatro, non consentite che la vostra vita frenetica lo trascuri. C’è bisogno di teatro di ogni genere. E solo di un certo teatro non c’è bisogno: il teatro dei giochi politici, della trappola politica, il teatro dei politici, della politica; il teatro del terrore quotidiano, singolo o collettivo; il teatro dei cadaveri e del sangue sulle piazze e nelle strade, nelle capitali e nelle province, fra religioni ed etnie.
(Traduzione dall’originale russo di Marina Deribo e Claudio Facchinelli. A cura del Centro Italiano dell’International Theatre Institute)
Nato il 4 maggio 1942 a Danilovka, Regione di Penza, Russia Anatolij Vasil’ev è regista teatrale di fama internazionale e docente di teatro russo. È il fondatore del Teatro Scuola di Arte Drammatica di Mosca. Uno spazio architettonico originale, concepito secondo i progetti di Vasil’ev, finalizzati della ricerca teatrale cui è dedicato. Anatolij Vasil’ev ha insegnato per molto tempo al Conservatorio di Arte Drammatica Lunačarskij (GITIS)1, al VGIK Istituto di Cinema di Mosca, e al ENSATT (Scuola nazionale superiore di arti e tecniche del teatro) a Lione. È considerato il più grande regista russo della sua generazione. Nel 1968 Anatolij Vasil’ev si iscrive al GITIS e studia con Andrej Popov e Maria Knebel. Nel 1973 inizia a lavorare al Teatro dell’Arte di Mosca, dove adatta l’opera di Osvald Zahradnik “Assolo per un orologio a pendolo”. Dal 1977 in poi, lavora al Teatro Stanislavskij sotto la guida di Andrej Popov. Ottiene riconoscimenti con l’adattamento teatrale della prima versione di “Vassa Železnova” di Maksim Gor’kij, e “La figlia adulta di un uomo giovane”, di Victor Slavkin. Nel 1982 viene invitato da Yurij Ljubimov al Teatro della Taganka La sua performance “Cerceau”, di Victor Slavkin, viene riconosciuta come miglior adattamento nel 1985. Durante il 1980 inizia ad insegnare nelle classi per sceneggiatori e registi. Nel 1987 fonda il suo teatro intitolato “Scuola di arte drammatica”. Le prime performance teatrali si svolgono nel seminterrato del palazzo in via Povarska,2a nord del quartiere Arbat, nel centro di Mosca. La stagione inaugurale della compagnia fu lanciata il 24 febbraio 1987 con “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello. Insieme a “Cerceau” che Viktor Slavkin aveva scritto appositamente per la compagnia, le due produzioni andarono in tournée in Europa occidentale per la prima volta tra il 1987 e il 1988. La sua scuola diventa un laboratorio di sperimentazione sulla voce e sul corpo dell’attore. Anatolij Vasil’ev si dedica alla messa in scena di testi non teatrali al fine di interrogarne l’oralità e il valore letterario. Essendosi formato anche musicalmente, Vasil’ev ricorre spesso alla musica nel suo lavoro. Dopo aver studiato a fondo la struttura dell’opera attraverso la metodologia dell’«étude» si interessa al modo in cui la vita interiore di un’idea può essere manifestata attraverso la parola. Studia la materialità del suono e l’intonazione, cercando di mettere le parole in movimento: il suono deve diventare carnale. Anatolij Vasil’ev si guadagna gradualmente una fama internazionale. Nel 1992 mette in scena “Ballo in maschera” di Lermontov alla Comédie Française, e l’anno successivo, a Roma, ‘Ciascuno a suo modo’ di Pirandello. Nel 1997 il suo spettacolo ‘Lamentations of Jeremiah’ viene rappresentato al Festival di Avignone, poi in Italia e a Berlino. La sua performance riceve il premio nazionale russo ‘Maschera d’Oro’ come miglior performance e migliore scenografia. Nel 1998 presenta il ‘Don Giovanni o l’ospite di pietra’ di Puškin alla Cartoucherie. Mette in scena ‘Il Sogno dello Zio’ di Dostoevskij (1994, Budapest),‘La Dama di Picche” di Čajkovskij (1996 Weimar), “Colpevoli senza colpa” di Ostrovskij (Ungheria 1998), “Mozart e Salieri” di Puškin (2000), “Materiale per Medea” di Heiner Müller (2001). Il 4 maggio 2001 la sua compagnia si trasferisce nella nuova sede di via Sretenka, costruita secondo i piani di Vasil’ev e Igor Popov, Boris Tchor e Sergej Gusarev. La struttura del nuovo edificio, con due sale (“Arena” e “Mappamondo”) e le sue ampie vetrate, rendono l’atmosfera di laboratorio artistico a cui i suoi creatori aspiravano. Nel 2005 mette in scena ancora una volta “Materiali per Medea” al Théâtre des Amandiers a Nanterre. Nel 2006 presenta l’adattamento da Puškin e Čaikovskij di “Dal Viaggio di Onegin” al Teatro Odeon e viene invitato dal Festival di Avignone a rappresentare “Mozart e Salieri” e “L’liade”. Nel 2006, a seguito di un conflitto con le autorità amministrative di Mosca, Vasil’ev lascia il suo posto presso la Scuola di Arte Drammatica e si sposta in Europa. Lavora a Parigi, Lione e Londra. Tre anni dopo è invitato dal direttore del Teatro Bol’šoj a mettere in scena un adattamento del “Don Giovanni”. Nel 2010 Vasil’ev lancia un corso di tre anni perla formazione di educatori teatrali. Il corso annuale, con sede a Venezia, dura due mesi e si rivolge principalmente a professionisti italiani, anche se attira educatori, attori e registi provenienti da tutto il mondo. Nel 2011, presso il Grotowski Institute a Wroclaw, in Polonia, Vasil’ev conduce un seminario di ricerca sulle tecniche della recitazione. Il seminario ha avuto una durata di 2 anni ed ha unito insieme i laureati del corso di Venezia con attori provenienti da vari paesi europei. Nel marzo 2016 Vasil’ev dirige “La Musica Deuxième”’ di Marguerite Duras, alla Comédie Française di Parigi. Anatolij Vasil’ev è supportato dalla sua collaboratrice di lunga data Natal’ja Isaeva, traduttrice e ricercatrice di teatro, e da Boaz Trinker, specialista nella formazione attorale.
Istituto Omnicomprensivo De Gasperi – Battaglia di Norcia
Motivazione della giuria
E’ una drammaturgia originale, straordinariamente felice nel quadro generale di un ripensamento necessario della funzione del teatro nella realtà contemporanea.
Il testo che ha come attori gli utilizzatori di WhatsApp nei giorni tragici del terremoto a Norcia, scandisce al suo interno il vissuto come un rosario della fragilità, ma anche un tempo poetico forte, imprevedibile, che arriva dalla trasformazione di una pagina eterea come quella del social in piattaforma creativa di teatro di comunità. Il risultato è una esperienza identitaria, un rito di appartenenza che si sostanzia in teatro e a produrlo sono gli esecutori di verità, gli studenti, ugualmente attori ugualmente spettatori senza più posizione frontale come nello spettacolo in generale. Dinanzi all’esperienza collettiva di perdita e di disorientamento la giovane comunità, proprio in situazione di pericolo, costruisce la lingua di difesa della propria struttura sociale, affettiva.
Non si tratta della lingua nazionale, né del dialetto e della lingua madre, ma della lingua dell’emergenza o lingua sismica. Questa porta in sé, accanto al dolore della separazione di chi la parla, il bisogno estremo del ricongiungimento, utilizza l’alfabeto della fuga per la velocità e l’immediatezza con cui l’atto del messaggiare è possibile all’istante e ovunque. E chissà che questa interpretazione fatta dai giovani di Norcia non ridefinisca il sistema stesso della comunicazione “cellulare” nel nostro tempo.
Il testo, mettendo in ordine cronologico i messaggi della chat compresi gli emoticon, raggiunge il suo apice drammaturgico nella ricognizione dell’esserci. Ogni partecipante ha bisogno di sapere chi c’è ancora nel mondo, come sta il mondo, chi è rimasto nella sua terra, nella sua casa, nella sua scuola. E’ il teatro dei corpi indifesi, dell’impreparazione alla disgregazione, come in tutto il teatro di sempre.
L’uso del messaggio nella sua forma online, breve, succinto, povero ed anche sgrammaticato, non ha ovviamente nella comunicazione quotidiana la potenza narrativa della parola dei messaggeri del teatro greco. Qui invece riemerge in tutta la sua capacità di raccontare e far vedere con gli occhi di chi è stato ed è presente sulla scena dell’evento, il turbamento giovanile e il suo bisogno di scongiurare la solitudine dinanzi alla voragine dell’incognito.
Possiamo immaginare. La tribù lancia piccoli sassi per abbattere uccelli in aria, quando un mammut gigante irrompe sulla scena e RUGGISCE; e allo stesso tempo, un piccolo essere umano RUGGISCE come il mammut. Allora, tutti fuggono via… Quel ruggito di mammut emesso da una donna umana (mi piacerebbe immaginarla come una donna) rappresenta l’origine di quello che ci rende la specie che siamo. Una specie capace di imitare ciò che non siamo, di rappresentare l’Altro. Facciamo un salto in avanti di dieci, cento o mille anni. La tribù ha imparato ad imitare altri esseri: nella profondità della caverna, nella luce tremolante di un falò, quattro uomini sono i mammut, tre donne sono il fiume, uomini e donne sono uccelli, bonobi, alberi e nuvole; la tribù rappresenta la caccia mattutina, catturando il passato con il loro dono teatrale. Ancora più sorprendente: la tribù inventa, quindi, possibili futuri, provando possibili modi di sconfiggere il mammut, il nemico della tribù. Ruggiti, fischi, mormorii (l’onomatopea del nostro primo teatro) diventeranno linguaggio verbale. La lingua parlata diventerà lingua scritta. Lungo un altro percorso, il teatro diventerà rito e, successivamente, cinema. Ma, accanto a queste ultime forme, e nel seme di ciascuna di esse, continuerà ad esserci sempre il teatro. La forma più semplice di rappresentazione. L’unica forma vivente di rappresentazione. Teatro: quanto più semplice è, tanto più intimamente ci connette alla più sorprendente capacità umana, quella di rappresentare l’Altro. Oggi, in tutti i teatri del mondo, celebriamo la straordinaria capacità umana della performance, quella capacità di rappresentare e, di conseguenza, catturare il nostro passato (e di inventare possibili scenari futuri, portando alla tribù maggiore libertà e felicità). Quali sono i mammut che, attualmente, la tribù umana dovrebbe sconfiggere? Quali sono i suoi nemici contemporanei? Cosa dovrebbe trattare quel teatro che aspiri ad essere qualcosa di più di un semplice intrattenimento? Ritengo che il mammut più grande di tutti sia l’alienazione dei cuori umani. La perdita della nostra capacità di sentire gli Altri, di sentire compassione per gli altri esseri umani come noi e per le altre forme di vita come noi, anche se non sono umane. Che paradosso. Oggi, all’ultima spiaggia dell’Umanesimo (dell’Antropocene), dell’era in cui gli esseri umani sono la forza naturale che ha maggiormente cambiato il pianeta e che continuerà a farlo, la missione del teatro, secondo il mio punto di vista, rappresenta l’opposto di ciò che aveva riunito la tribù quando il teatro veniva interpretato in una caverna: oggi, dobbiamo recuperare la nostra connessione con il mondo naturale. Più della letteratura e più del cinema, il teatro, che richiede la presenza di esseri umani davanti ad altri esseri umani, è incredibilmente capace di salvarci dal diventare algoritmi o pure astrazioni. Rimuoviamo dal teatro tutto ciò che è superfluo. Spogliamolo. Perché quanto più semplice è il teatro, tanto più può ricordarci dell’unica cosa innegabile: che noi siamo, finché siamo ancora in tempo, che siamo soltanto finché siamo carne ed ossa e cuori che battono nei nostri petti, che siamo qui e adesso, e nulla più. Lunga vita al teatro, la più antica delle arti. L’arte di essere nel presente; la più straordinaria delle arti. Lunga vita al teatro.
Sabina Berman, nata a Città del Messico, è scrittrice e giornalista. Considerata, a livello critico e commerciale, la drammaturga contemporanea di maggior successo del Messico, la Berman è una delle scrittrici viventi più prolifiche in lingua spagnola. Prima della sua nascita, i suoi genitori subirono la persecuzione profusa contro gli ebrei nella loro Polonia nativa e cercarono rifugio in Messico. Sabina, insieme ai suoi due fratelli e alla sorella, è cresciuta nella piena consapevolezza delle tensioni che questo conflitto aveva messo sulle fortune della famiglia e, ancora oggi, considera questo un fatto decisivo per la sua vita. Il suo lavoro da professionista come scrittrice riguarda, principalmente, i problemi legati alla diversità e ai suoi ostacoli. Il suo stile tende verso lo humour e la necessità di andare oltre i limiti della lingua. È quattro volte vincitrice del Premio Nazionale di Drammaturgia in Messico (Premio Nacional de Dramaturgia Juan Ruiz Alarcón) e ha vinto due volte il Premio Nazionale di Giornalismo (Premio Nacional de Periodismo). Le sue opere teatrali sono andate in scena in Canada, America del Nord, America Latina ed Europa. Il suo romanzo, Me (La mujer que buceó en el corazón del mundo) è stato tradotto in 11 lingue e pubblicato in oltre 33 paesi, tra cui Spagna, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele. Attualmente, sta lavorando per il cinema e la televisione.
Traduzione a cura del Centro Italiano dell’International Theatre Institute. La Giornata Mondiale del Teatro è un’iniziativa promossa, dal 1962, dall’International Theatre Institute Worldwide.
Registra teatrale, attore teatrale e cinematografico, accademico, precedentemente direttore della Scuola Nazionale di Arte Drammatica di Delhi.
In breve, dopo tutte le storie evoluzionistiche, sappiamo soltanto una cosa, e cioè che tutte le forme di vita tendono a sopravvivere fino all’eternità. Se possibile, la vita tende a diffondersi oltre il tempo e lo spazio per diventare immortale. Inoltre, in questo processo, la forma di vita si mutila e si distrugge a livello universale. Tuttavia, dobbiamo limitare questa considerazione alla sopravvivenza dell’umanità e alla sua emancipazione dal cacciatore dell’Età della Pietra alla nostra Età dello Spazio. Siamo più rispettosi adesso? Più sensibili? Più gioiosi? Siamo più amorevoli nei confronti della natura di cui siamo un prodotto? Sin dai nostri esordi, le arti performative (Danza, Musica, Teatro/Recitazione) hanno sviluppato anche lo strumento della lingua, fatta di vocali e consonanti. La vocale esprime, essenzialmente, i sentimenti o le emozioni, mentre la consonante effettua la comunicazione della forma e del pensiero/conoscenza. La matematica, la geometria, gli armamenti e, adesso, i computer ne sono il risultato. Pertanto, non possiamo tornare indietro da questa evoluzione della lingua. La Terra stessa non sopravvivrà, se la gioia collettiva delle arti teatrali e della conoscenza (che include la tecnologia) non sarà emancipata, ri-sublimata dal mondano, dalla furia, dalla cupidigia e dal male. I mezzi di comunicazione di massa, così come la scienza e la tecnologia, cihanno resi potenti come demoni: di conseguenza, la forma di teatro non è la crisi odierna, ma è la crisi di contenuti, di comunicazione e d’interesse. Dobbiamo fare appello all’uomo della Terra di oggi per salvare il vero pianeta terra e, quindi, il “teatro”. A un livello pragmatico, le arti dell’attore e quelle delle performance dovrebbero essere proposte ai bambini a partire dall’educazione primaria. Ritengo che tale generazione sarà più sensibile alla giustizia della vita e della natura. Il vantaggio della lingua potrà così essere molto meno dannoso alla Madre Terra e agli altri pianeti. Inoltre, il “teatro” diventerà più importante per la conservazione e il nutrimento della vita stessa, e per questo ha bisogno di incaricare il performer e lo spettatore, senza rappresentare una minaccia l’uno per l’altro in questa era cosmica di solidarietà. Saluto il teatro e faccio un appello al mondo, affinché lo realizzi e lo sostenga dalla base della comunità, rurale e urbana tutta. “Arti, Lingua e Compassione insieme nell’Educazione per le Generazioni”.
Ram Gopal Bajaj. Nato nel 1940 a Darbhanga, in India, Ram Gopal Bajaj è un attore, regista, scrittore ed educatore teatrale pluripremiato e fortementeacclamato. Avendo completato, nel 1960, il suo percorso di laurea presso l’Università di Bihar, proseguì, nel 1965, nella Scuola Nazionale di Arte Drammatica, un’istituzione della quale, da allora, è diventato sinonimo, e dove si è specializzato in recitazione. Dopo il conseguimento del titolo, Bajaj è diventato membro della facoltà della Scuola Nazionale di Arte Drammatica, dove ha perfezionato le proprie teorie sulla formazione teatrale. Da quel momento, ha lavorato come direttore dell’università, nonché come conferenziere, ricoprendo ruoli di responsabilità presso la Punjabi University, l’Università di Hyderabad la prestigiosa Modern School di New Delhi. Dopo aver conseguito un’infarinatura di formazione teatrale, Bajaj proseguì, diventando uno dei membri fondatori di “Dishantar”, un gruppo di professionisti del teatro, fondato nel 1967, una piattaforma che ha consentito alla sua carriera di attore di prosperare seriamente. Le sue prime rappresentazioni, sia di drammi indiani che internazionali, furono ampiamente acclamate. In seguito, è diventato regista, mettendo in pratica molto di quanto aveva appreso da attore e da studente. Dalla sua iniziale scoperta, Bajaj ha continuato recitando in 36 opere teatrali e dirigendo 45 produzioni. Bisogna dargli atto della vittoria di premi in entrambe le discipline, quali il “Premio Nazionale per il Teatro Immaginativo Indiano”, da parte della Stampa Nazionale Indiana, per la sua direzione teatrale nel 1992 e il premio come “Miglior attore” al Dada Saheb Phalke Film Festival, nel 2017. Inoltre, ha tradotto e adattato 19 opere teatrali da diverse lingue all’hindi ed è rinomato per il suo stile unico di recitazione poetica. Grazie al suo immenso servizio al teatro, nel 2003, Ram Gopal Bajaj è stato insignito del premio “Padma Sri” dal Presidente dell’India. Da allora, ha ricevuto altri premi alla carriera nel 2015 e nel 2016; nel 2017 ha ricevuto il premio “Hindi Academy Natak Samman” per il suo eccezionale contributo al canone della lingua e della letteratura hindi. Attualmente, è ancora attivo come attore, registra e scrittore, sia in ambito teatrale che cinematografico.
Traduzione a cura del Centro Italiano dell’International Theatre Institute. La Giornata Mondiale del Teatro è un’iniziativa promossa, dal 1962, dall’International Theatre Institute Worldwide.
Un giorno, un essere umano decise di porsi delle domande davanti a uno specchio (un pubblico), di inventarsi delle risposte e, di fronte allo stesso specchio, (il suo pubblico) di fare autocritica, di prendere in giro le sue stesse domande e risposte, di riderne e di piangerne, comunque, e alla fine, di salutare e benedire il suo specchio (il suo Pubblico), per avergli dato questo momento di dispetto e tregua, allora s’inchina e lo ringrazia per mostrargli gratitudine e rispetto […] nel profondo, era alla ricerca di pace: pace con se stesso e con il suo specchio. Stava facendo teatro […] quel giorno, parlava […] disprezzando i suoi punti deboli, le sue contraddizioni e le sue deformazioni, condannando, attraverso mimica e contorsioni, le sue meschinerie, che hanno infangato la sua umanità, i suoi inganni, che avevano portato cataclismi. Parlava a se stesso […] ammirandosi nei suoi scatti crescenti, nelle sue aspirazioni alla grandezza, alla bellezza, ad un essere migliore, ad un mondo migliore, che avrebbe costruito con i propri pensieri, che avrebbe potuto forgiare con le proprie mani, Se lui, insieme al suo riflesso nello specchio, lo avesse voluto, disse a se stesso, Se lui e il suo specchio ne condividessero il desiderio […]
Ma lui lo sa: stava facendo una Rappresentazione una derisione, senza dubbio, un’illusione, ma anche, certamente, un’azione mentale, una costruzione, una ri-creazione del mondo: stava facendo teatro […] Anche se sabotava tutte le speranze attraverso le sue parole e i suoi gesti accusatori, era deciso a credere che tutto si sarebbe compiuto in una sola sera con i suoi sguardi folli, con le sue parole dolci, con i suoi sorrisi maliziosi, con il suo buon umore, con le sue parole che, offensive o cullanti, avrebbero compiuto l’intervento chirurgico per miracolo. Sì, stava facendo teatro. E, in generale, da noi in Africa, specialmente nella zona del Kamite da cui provengo, prendiamo in giro tutto anche noi stessi: ridiamo anche nel lutto quando piangiamo, battiamo la terra, quando ci fa arrabbiare, con il Gbégbé o il Bikoutsi intagliamo Maschere paurose, Glaé, Wabele o Poniugo, per dare forma ai Principi Assoluti che ci impongono la ciclicità e i tempi. E i burattini, che, come noi, finiscono per plasmare i loro creatori e, soggiogare i loro manipolatori.
Concepiamo dei rituali in cui la parola, ritmicamente cadenzata da canzoni e respiri, avanza alla conquista del sacro, incitando danze come fossero trance, incantesimi e richiami alla devozione, ma anche, e soprattutto, scoppi di risate per celebrare la gioia di vivere che nemmeno secoli di schiavitù e colonizzazioni, di razzismo e discriminazioni, né eternità di indicibili atrocità hanno potuto soffocare o schiacciare. Dalla nostra anima di Padre e Madre dell’Umanità, in Africa, come in qualsiasi parte del mondo, facciamo teatro […] e in quest’anno speciale dedicato all’ITI (Organizzazione Mondiale per le Arti Performative), sono particolarmente felice ed onorata di rappresentare il nostro continente per portare il suo messaggio di pace Il Messaggio di Pace del Teatro; perché questo continente, di cui non molto tempo fa fu detto che il mondo poteva farne a meno, senza che nessuno avvertisse malessere o mancanza, è stato di nuovo riconosciuto nel suo ruolo primordiale di Padre e Madre dell’Umanità e il mondo intero ci si sta riversando […] perché tutti sperano sempre di trovare la pace nelle braccia dei propri genitori, non è vero? E come tale, il nostro teatro più che mai, riunisce e impegna tutti gli umani, specialmente tutti coloro che condividono il pensiero, la parola e l’azione teatrale, ad avere maggiore rispetto per se stessi e per gli altri, favorendo i migliori valori umanistici, nella speranza di riconquistare una migliore umanità in ciascuno: quella che fa rinascere intelligenza e comprensione, attraverso questa parte delle culture umane, tra le più efficaci, quella che cancella tutti i confini: il teatro […] una delle più generose, perché parla tutte le lingue, coinvolge tutte le civiltà, riflette tutti gli ideali ed esprime una profonda unità di tutti gli uomini che, nonostante tutte le contrapposizioni, cercano soprattutto di conoscersi meglio e di amarsi meglio, in pace e in tranquillità quando la rappresentazione diventa partecipazione, ricordandoci il dovere di un’azione che ci impone il potere del teatro di far ridere e piangere tutti, insieme, diminuendo la loro ignoranza, aumentando la loro conoscenza, affinché l’uomo torni ad essere la più grande ricchezza dell’uomo.
Il nostro teatro si propone, essenzialmente, di riesaminare e rivalutare tutti questi principi umanistici, tutte queste grandi virtù, tutte queste idee di pace e amicizia tra i popoli, così tanto sostenute dall’UNESCO, per reincarnarle nelle scene che creiamo oggi, in modo tale che queste stesse idee e questi stessi principi diventino un bisogno essenziale e un pensiero profondo, prima di tutto, dei creatori di teatro, che potranno così condividerli meglio con il loro pubblico. Ecco perché la nostra ultima creazione teatrale, intitolata “L’Arbre Dieu”, ripetendo i consigli di Kindack1 Ngo Biyong Bi Kuban2, nostra Maestra, dice: “Dio è come un Grande Albero” di cui si riesce a percepire un solo aspetto alla volta, in base all’angolo da cui viene osservato: chiunque sorvoli l’albero, percepirà soltanto il fogliame gli eventuali frutti o fiori stagionali; chiunque viva nel sottosuolo, ne saprà di più delle sue radici; quelli che vi si appoggeranno all’albero lo riconosceranno, sentendolo dietro la schiena; quelli provenienti da qualsiasi punto cardinale, vedranno aspetti che quelli che sono dall’altra parte non necessariamente vedranno; alcuni, quelli privilegiati, percepiranno il segreto tra la corteccia e la polpa del legno; ed altri ancora, la scienza intima custodita nel midollo dell’albero; ma, qualunque sia la superficialità o la profondità della percezione di ciascuno, nessuno sarà mai posizionato in un’angolazione dalla quale sia possibile percepire tutti questi aspetti nello stesso tempo, a meno che non ci si trasformi in questo stesso albero divino! Ma allora, siamo ancora umani? Che tutti i teatri del mondo si tollerino e accettino reciprocamente, per meglio servire lo scopo globale dell’ITI, affinché, in questo suo 70° anniversario, ci sia più Pace nel mondo con una forte partecipazione del Teatro […]
Were Were Liking
1 Kamite, abitante di Kamita, la “Terra dei Neri”, lett. “Africa”. Il termine Kamite si riferisce anche a tutti i nativi e ai loro discendenti sparpagliatisi per il mondo nelle diaspore, oltre ai praticanti della religione originaria di questa regione. 2 Gbégbé, danza tradizionale della Regione Bété, in Costa d’Avorio, usata nelle manifestazioni pubbliche di giubilo o di cordoglio.
WEREWERE-LIKING GNEPO, artista multidisciplinare, è nata il 1° Maggio 1950 a Bondé, in Camerun e vive in Costa d’Avorio sin dal 1978. In qualità di scrittrice, vanta circa trenta pubblicazioni a suo nome, che includono romanzi, opere teatrali, storie, saggi, libri d’arte e di poesia. Come pittrice, da quando ha preso in mano il pennello per la prima volta, nel 1968, ha organizzato molte mostre in giro per il mondo. Più ampiamente in ambito teatrale, oltre ad essere acclamata drammaturga, è anche un’innovativa burattinaia ed è stata direttrice di molti grandi affreschi teatrali, tutto descritto con il nome di opere africane, molte delle quali hanno fatto il giro del mondo. È stata attrice sia per il palcoscenico che per lo schermo, oltre ad essere anche un’artista rap. Come ricercatrice in Tecniche Pedagogiche Tradizionali dell’Università di Abidjan (ILENA), dal 1979 al 1985, ha partecipato alla rivoluzione del teatro rituale, ed ha avviato il gruppo artistico Ki-Yi Mbock dall’alto della propria esperienza nel campo. Ha sviluppato uno speciale sistema di formazione, ispirato ai riti d’iniziazione africani, che le consente di raggiungere centinaia di giovani in circostanze difficili e di reintegrarli nella società. Questo, nel 2000, le ha garantito il Premio Pince Clauss di “Eroe della Città”. Nel 2001, ha fondato la Pan-African Ki-Yi Foundation, che cerca di galvanizzare le giovani generazioni, incoraggiando la Creatività come un percorso di sviluppo personale, e con la quale lavora dal momento della fondazione. Il suo duro lavoro, in una grande quantità di discipline, è stato riconosciuto attraverso innumerevoli premi, che includono, a titolo esemplificativo, il Premio Arletty, insignito dalla Francia, il René Praile, conferito dal Belgio, il Fonlon Nichols, dall’Università di Alberta, in Canada, il titolo di Chevalier des Arts et Lettres Françaises, il titolo di Membro dell’Ordine Nazionale di Merito della Costa d’Avorio, il titolo di Membro dell’Alto Consiglio de “La Francophonie” dal 1997 al 2003, il Noma Prize 2005 e il titolo di persona insigne dell’Annuario del 2007, grazie al suo romanzo “The Memory Amputee”. Oggi, è membro permanente dell’Accademia di Scienza, Arte e Cultura dell’Africa e delle Diaspore Africane in Costa d’Avorio.
Traduzione a cura del Centro Italiano dell’International Theatre Institute. La Giornata Mondiale del Teatro è un’iniziativa promossa, dal 1962, dall’International Theatre Institute Worldwide.
Attore, scrittore, regista e co-fondatore del Théâtre de Complicité
A mezzo miglio dalla costa della Cirenaica, nel nord della Libia, si trova un vasto anfratto roccioso, di 80 metri di larghezza e 20 di altezza. Nel dialetto locale chiamato auh Fteah. Nel 1951 l’analisi della datazione al carbonio ha mostrato un’occupazione umana ininterrotta da almeno 100.000 anni. Tra i reperti venne alla luce un flauto osseo databile tra i 40 e i 70.000 anni fa. Da ragazzo, sentita questa notizia, chiesi a mio padre: “Avevano musica?” Mi sorrise: “Come tute le comunità umane.” Mio padre era uno studioso della preistoria nato in America. Il primo a scavare il sito di auh Fteah in Cirenaica. Sono molto onorato e felice di essere il rappresentante europeo della Giornata Mondiale del Teatro di quest’anno. Nel 1963, il mio predecessore, il grande Arthur Miller disse che la minaccia della guerra nucleare gravava pesantemente sul mondo: “Mi stato chiesto di scrivere in un’epoca in cui la diplomazia e la politica hanno braccia terribilmente corte e deboli; la portata fragile, ma allo stesso tempo, lunga dell’arte deve sopportare il peso di tenere insieme la comunità umana “. Il significato della parola Dramma deriva dal greco “dran” che significa “fare” [… ] e la parola teatro ha origine dal greco “Theatron”, che letteralmente significa “luogo della visione”. Un luogo non solo dove guardiamo, ma dove vediamo, riceviamo, capiamo. 2400 anni fa Policleto il Giovane progetto il grande teatro di Epidauro. Poteva accogliere fino a 14.000 persone. L’acustica di questo spazio all’aperto miracolosa. Un fiammifero acceso al centro della scena put essere sentito in tutti i 14.000 post.
Come in tutti i teatri greci, quando si guardavano gli attori, si vedeva anche il paesaggio oltre. Così non solo si combinavano più luoghi contemporaneamente, la comunità, il teatro e il mondo naturale, ma si riunivano anche tutti i tempi. Poiché lo spettacolo evocava i miti del passato nel tempo presente, si poteva guardare oltre il palco quello che sarebbe stato il proprio futuro ultimo. La natura. Una delle rivelazioni più notevoli nella ricostruzione del Globe Theatre di Shakespeare a Londra legata alla visione. Questa rivelazione riguarda la luce. Sia il palco che la platea sono illuminati allo stesso modo. Artisti e pubblico possono vedersi. Sempre. Ovunque si guardi ci sono le persone. E una delle conseguenze che ci viene ricordato che i grandi soliloqui di Amleto o Macbeth, non erano solo meditazioni private, ma dibattiti pubblici. Viviamo in un’epoca in cui è difficile vedere chiaramente. Siamo circondati da più finzioni che in qualsiasi altro momento della storia o della preistoria. Qualsiasi “fato” può essere messo in discussione, qualsiasi aneddoto può presentarsi alla nostra attenzione come “verità”. Una finzione in particolare ci circonda continuamente. Quella che cerca di dividerci. Dalla verità. Gli uni dagli altri. E che dice che siamo separati. I popoli dalle persone. Le donne dagli uomini. Gli esseri umani dalla natura. Ma proprio mentre viviamo in un periodo di divisione e frammentazione, viviamo anche in un tempo di immenso movimento. Più che in qualsiasi altro momento della storia, le persone sono in movimento; spesso in fuga; a piedi, a nuoto se necessario, migrando; in tutto il mondo. E questo solo l’inizio. La risposta, come sappiamo, stata quella di chiudere i confini. Di costruire muri. Di chiudersi. Di isolarsi. Viviamo in un ordine mondiale tirannico, in cui l’indifferenza la moneta corrente e la speranza una merce di contrabbando. Parte di questa tirannia consiste nel controllo non solo dello spazio, ma anche del tempo. Il tempo in cui viviamo evita il presente. Si concentra sul passato recente e sul futuro prossimo. Quello non ce l’ho. Comprerò questo. Ora l’ho comprato, ho bisogno di avere la prossima […] cosa. Il passato profondo cancellato. Il futuro senza conseguenze. Molti dicono che il teatro non cambierà o non put cambiare nulla di tutto questo. Ma il teatro non se ne andrà via. Perché il teatro un luogo, sarei tentato di dire un rifugio. Dove le persone si incontrano e formano istantaneamente una comunità. Come abbiamo sempre fatto. Tutti i teatri hanno la misura delle prime comunità umane, da 50 a 14.000 anime. Da una carovana nomade a un terzo dell’antica Atene. E poiché il teatro esiste solo nel presente, esso si oppone a questa disastrosa visione del tempo. Il presente sempre l’oggetto del teatro. I suoi significati sono costruiti in un atto comunitario tra performer e pubblico. Non solo qui, ma ora. Senza l’atto del performer il pubblico non potrebbe credere. Senza la fiducia del pubblico, la performance non sarebbe completa. Ridiamo nello stesso momento. Siamo commossi. Rimaniamo senza fiato o restiamo scioccati nel silenzio. E in quel momento attraverso il dramma scopriamo una verità più profonda: che ciò che consideravamo la divisione più privata tra noi, il confine della nostra coscienza individuale, anche senza frontiere è qualcosa che noi condividiamo. E non ci possono fermare. Ogni sera riappariremo. Ogni sera gli attori e il pubblico si troveranno assieme. E lo stesso dramma verrà rimesso in scena. Perché, come afferma lo scrittore John Berger: “Nella profonda natura del teatro c’ il senso del ritorno rituale”. Questo il motivo per cui il teatro sempre stato la forma d’arte dei diseredati. Diseredati che, a causa dello smantellamento del nostro mondo, noi tutti siamo. Ovunque ci siano artisti e spettatori, verranno messe in scena storie che non possono essere raccontate da nessun’altra parte: nei teatri d’opera e nei teatri delle grandi città, nei campi che ospitano migranti e rifugiati nel nord della Libia e in tutto il mondo. Saremo sempre uniti, insieme, in questa rievocazione. E se fossimo a Epidauro potremmo guardare e vedere come condividiamo tutto questo con un paesaggio più ampio. Come siamo sempre parte della natura e non possiamo sfuggirle, proprio come non possiamo sfuggire al pianeta. Se fossimo al Globe, vedremmo come, domande apparentemente private, siano rivolte a tutti noi. E se dovessimo tenere in mano quel flauto cirenaico di 40.000 anni fa, capiremmo che il passato e il presente qui sono indivisibili, e che la catena della comunità umana non put mai essere spezzata dai tiranni e dai demagoghi.
Peter Brook: “Il teatro inglese ha una tradizione eccellente e onorevole. Simon McBurney e Complicite non fanno parte di questa; hanno creato la loro propria tradizione e questo è il motivo per cui sono così speciali, così preziosi. “ Attore, scrittore e regista Simon McBurney è attualmente uno dei più innovativi, mutevoli e influenti registi teatrali. Ha co-fondato la compagnia Complicite (ex Théâtre de Complicité) a Londra nel 1983. Da allora ha lavorato in maniera continuativa con gli stessi designer, produttori, registi, attori, scrittori (compresa una stretta collaborazione di 25 anni con lo scrittore John Berger, deceduto nel 2017), per sviluppare un processo di ricerca e creazione profondo e altamente collaborativo, che fonde un fascino forte per il linguaggio con la convinzione che tutti gli aspetti del teatro dovrebbero parlare. Che stia realizzando opere originali o adattamenti per il teatro, oppure un’opera o un film o un lavoro che reinventi i classici di Broadway, McBurney sfida continuamente i limiti della forma teatrale. Oltre a scrivere e creare opere originali, ha portato sul palcoscenico grandi opere teatrali – Beckett, Brecht, Bulgakov, Dürrenmatt, Ionesco, Daniil Kharms, Arthur Miller, Bruno Schulz, Shakespeare e Ruzzante – ed ha anche adattato numerose opere letterarie. Ad esempio, il suo adattamento di Il Maestro e Margherita (2012) è stato lo spettacolo centrale del Festival di Avignone del 2012, dove è stato Artiste Associé per quell’anno. Più recentemente ha adattato e diretto L’impazienza del Cuore (2016) di Stefan Zweig in collaborazione con l’Ensemble Schaubühne di Berlino. Negli ultimi 20 anni il suo lavoro è ritornato continuamente su questioni politiche, sociali e filosofiche, sul modo in cui viviamo, pensiamo e agiamo come società. Vengono esplorate idee complesse e rivelate attraverso l’uso di una sorprendente teatralità, che non teme di fondere le più antiche forme teatrali con gli aspetti più avanzati della tecnologia.
Con Mnemonico (1999-2004), un’opera teatrale sulla relazione tra memoria, origine e identità, inizia la sua fascinazione per la mente e la coscienza. McBurney ha ripreso la storia di Oetzi, il cadavere trovato nel 1991 in un ghiacciaio sul confine austriaco-italiano, che gli scienziati hanno dimostrato aver vissuto 5000 anni fa. McBurney ha unito questa storia con una personale, attuale, di perdita e rottura. Questi temi sono stati esplorati in differenti modi negli ultimi anni, più recentemente in The Encounter, che è stato commissionato per il Festival Internazionale di Edimburgo nel 2015. The Encounter, attualmente in tournée in Europa in una nuova versione, è al tempo stesso un’installazione, una meditazione filosofica sulla natura della coscienza e un grido straziante contro le istanze coloniali della moderna società dei consumi. Pone domande politiche, sociali e formali su cosa significhi essere umani oggi. Unisce la più antica delle forme teatrali, il semplice storytelling, con la tecnologia contemporanea, utilizzando il suono binaurale trasmesso dal vivo ad ogni spettatore attraverso cuffie individuali. L’enfasi non è mai sulla tecnologia, ma sulle domande fondamentali che McBurney pone sulla coscienza e su come la società occidentale “pensi”, ricordandoci che dobbiamo ascoltare coloro che sono ai margini del nostro mondo, se vogliamo sopravvivere. Una simile intersezione di rigorosa indagine intellettuale e sorprendente forma teatrale è stato il centro del dramma A Disappearing Number (2007), scritto da McBurney e ispirato a Apologia di un Matematico di G.H. Hardy che ha raccontato la storia del rapporto tra il matematico di Cambridge, Hardy e Srinivasa Ramnujan, il più grande matematico indiano del XX secolo. Integrando la matematica complessa all’interno dello spettacolo, McBurney ha tessuto una storia che combina identità culturale, amore e mortalità con un’esplorazione della bellezza matematica, realizzata attraverso la danza classica indiana, la musica e la video-proiezione. L’identità culturale e il funzionamento della mente sono stati anche al centro delle opere realizzate con il Teatro pubblico di Setagaya a Tokyo. Il primo, The Elephant Vanishes, è stato adattato da un libro di racconti di Haruki Murakami. Il secondo è un adattamento di due opere di Junichiro Tanizaki. La storia di Shunkin, una novella su un giocatore cieco di Shamisen nel XIX secolo, e il saggio sull’estetica di Tanizaki, Libro d’Ombra.
I due spettacoli – uno ambientato nella moderna Tokyo, il secondo un mix tra una stazione radio di Kyoto e il Giappone dell’inizio del XIX secolofondevano contenuto e forma per porre domande cruciali sulla cultura giapponese e, in generale su tutte le culture, rispetto alla relazione tra presente e passato, sfidando le idee occidentali di percezione e bellezza. Nella convinzione che, così come le parole formano la base della nostra coscienza, la musica invece rivela e fa appello al nostro profondo inconscio. Questa enfasi sulla “musicalità” del teatro è stata evidente fin dall’inizio del suo lavoro. Non solo nell’uso della musica stessa, ma nella forma degli spettacoli, che egli considera delle vere e proprie partiture musicali. Questa musicalità è stata particolarmente evidente in La Via dei Coccodrilli, basato sugli scritti dell’ autore e artista polacco Bruno Schulz, e ispirato al primo Concerto Grosso di Alfred Schnittke. The Noise of Time, creato in collaborazione con l’Emerson Quartet e il Lincoln Center di New York, ha preso come testo centrale il quartetto n. 15 di Shostakovitch. Il pezzo integrava il teatro e la musica in un modo completamente nuovo, con il quartetto che imparava a memoria questo straordinario lavoro, in modo che potessero muoversi con gli attori durante tutta la performance. Ciò ha portato ad una collaborazione con la Los Angeles Philharmonic Orchestra nella prima stagione della Walt Disney Concert Hall, con Strange Poetry, una meditazione su Berlioz, utilizzando l’intera orchestra come interpreti. Da allora ha realizzato opere in collaborazione con De Nederlaandse Opera di Amsterdam. Cuore di Cane (2010), una nuova opera del compositore russo Sasha Raskatov, è stata poi seguita da Il Flauto Magico (2012) e da La Carriera di un Libertino di Stravinsky (2017). Il lavoro di McBurney, e della compagnia di cui è direttore artistico, è stato riconosciuto non solo come origine di un cambiamento epocale nel teatro inglese negli ultimi 30 anni, ma anche per aver esercitato un’influenza sul lavoro di molti artisti in tutto il mondo. Tra i numerosi premi e riconoscimenti è stato il primo straniero ad aver ricevuto il prestigioso Premio Yomiuri in Giappone (2011), è stato Artiste Associée del Festival di Avignone (2012) e ha ricevuto dottorati onorari in diverse università, tra cui Lund, in Svezia, la Metropolitan University di Londra e l’Università di Cambridge.
Traduzione di Roberta Quarta del Centro Italiano dell’International Theatre Institute. La Giornata Mondiale del Teatro è un’iniziativa promossa, dal 1962, dall’International Theatre Institute Worldwide.
Regista, attrice, scrittrice teatrale e co-fondatrice della Compagnia di Teatro Zoukak
Si tratta di un momento di comunione, un incontro irripetibile, non riscontrabile in nessun’altra attività laica. Si tratta del semplice atto di un gruppo di persone, che sceglie di riunirsi nello stesso luogo e allo stesso orario per prendere parte ad un’esperienza di condivisione. Si tratta di un invito, per gli individui, a trasformarsi in un insieme, per condividere idee e concepire modi di dividere il peso di azioni necessarie […] e recuperare lentamente la loro connessione umana, trovando somiglianze, piuttosto che differenze. È il luogo dove una determinata storia riesce a tracciare le linee dell’universalità [… ] È qui che risiede la magia del teatro, dove la rappresentazione recupera le sue proprietà arcaiche. In una cultura globale di paura incontrollata del prossimo, di isolamento e di solitudine, stare insieme, in maniera viscerale, in un “qui” e in un “ora”, costituisce un atto d’amore. Decidere di prendersi del tempo (lontano dalla gratificazione immediata e dell’auto-indulgenza individuale nelle nostre società consumistiche ad alto ritmo), rallentare, contemplare e riflettere insieme è un atto politico, un atto di generosità. Dopo il crollo delle principali ideologie, e poiché l’attuale ordine mondiale sta dimostrando il proprio fallimento, decennio dopo decennio, come possiamo re-immaginare il nostro futuro? Dato che la sicurezza e la comodità costituiscono la preoccupazione principale e la priorità nelle dissertazioni predominanti, riusciamo ancora ad impegnarci in conversazioni scomode? Riusciamo ad andare verso territori pericolosi, senza la paura di perdere i nostri privilegi?
Oggi, la velocità delle informazioni è più importante della conoscenza, gli slogan hanno più valore delle parole e le immagini dei corpi sono più stimate della loro viva presenza. Il teatro è qui per ricordarci che siamo fatti di carne e sangue, e che i nostri corpi hanno un peso; è qui per risvegliare tutti i nostri sensi, e per dirci che non abbiamo bisogno di cogliere l’attimo e di consumarci solo con il nostro sguardo. Il teatro è qui per restituire alle parole potere e significato, per rubare di nuovo ai politici l’arte oratoria e ricollocarla nel suo luogo legittimo […] l’arena delle idee e del dibattito, spazio di visione collettiva. Attraverso il potere della narrazione e dell’immaginazione, il teatro ci consente nuovi modi di vedere il mondo e gli altri, aprendo un spazio per la riflessione comune in mezzo alla schiacciante ignoranza dell’intolleranza. Quando xenofobia, discorsi di odio e supremazia bianca sono ritornati sul tavolo senza sforzi, dopo anni di duro lavoro e sacrifici da parte di milioni di persone in tutto il mondo, per rendere questi concetti vergognosi e qualificarli come inaccettabili […] quando ragazze e ragazzi vengono sparati e incarcerati per aver rifiutato di assecondare le ingiustizie e la segregazione razziale […] quando personaggi folli e il dispotismo di estrema destra governano alcuni dei principali paesi del primo mondo … quando la guerra nucleare incombe come un gioco virtuale tra gli “uomini-bambini” del potere [… ] quando la mobilità diventa sempre più ristretta ad una minoranza selezionata, mentre i rifugiati muoiono in mare, cercando di entrare nelle alte fortezze dei sogni illusori, mentre vengono costruiti muri sempre più costosi […] dove dovremmo mettere in discussione il nostro mondo, quando la maggior parte dei media sono venduti? Dove se non nell’intimità del teatro, siamo capaci di ripensare alla nostra condizione umana, per immaginare un nuovo ordine mondiale […] in maniera collettiva, con amore e compassione, ma anche attraverso un confronto costruttivo, attraverso intelligenza, resilienza e vitalità.
Provenendo dalla regione araba, potrei parlare delle difficoltà che i produttori di teatro affrontano nel fare il proprio lavoro. Tuttavia, faccio parte di una generazione di produttori che si sente privilegiata per il fatto che i muri che dobbiamo distruggere sono sempre stati quelli visibili. Questa situazione ci ha portato ad imparare a trasformare ciò che è a disposizione, spingendo la collaborazione e l’innovazione oltre i limiti, facendo teatro nei sotterranei, sui tetti, nei salotti, nei vicoli e per le strade, creando il nostro pubblico in itinere, nelle città, nei villaggi e nei campi per i rifugiati. Abbiamo avuto il vantaggio di dover costruire qualsiasi cosa da zero nei nostri contesti e di concepire modi per evadere la censura, sempre oltrepassando le linee rosse e sfidando i tabù. Oggi, questi muri sono di fronte a tutti i produttori di teatro nel mondo, poiché i sovvenzionamenti non sono mai stati così scarsi e il “politicamente corretto” costituisce la nuova censura. Di conseguenza, la comunità teatrale internazionale deve svolgere un ruolo collettivo, oggi più che mai, per fronteggiare questi muri, tangibili e intangibili, che continuano a moltiplicarsi. Oggi più che mai, c’è bisogno di reinventare creativamente le nostre strutture politiche e sociali, con coraggio ed onestà, per affrontare le nostre inadeguatezze e per prenderci le responsabilità del mondo che stiamo contribuendo a costruire. In qualità di produttori di teatro del mondo, non seguiamo un’ideologia o un sistema di credenze, ma abbiamo in comune la nostra eterna ricerca della verità in tutte le sue forme, la nostra ininterrotta messa in discussione dello status quo, la nostra sfida ai sistemi di potere oppressivi e, ultima ma non meno importante, la nostra integrità umana. Siamo tanti, non abbiamo paura e siamo qui per restare!
Maya Zbib è regista, attrice, scrittrice teatrale e co-fondatrice della Compagnia di Teatro Zoukak. Il suo lavoro è stato rappresentato in Medio Oriente, Europa, Stati Uniti, Africa, America del Sud e Asia meridionale. Ha insegnato teatro a livello internazionale, in contesti accademici e non. Le è stato commissionato di creare lavoro per il Centro di Arti Sceniche della NYUAD, per l’Università di Houston, per il Williams College, per i teatri della città di Krefeld/Monchengladbach, per il Shwindlefrie Festival, il LIFT Festival e il Royal Court Theatre, tra gli altri. Zbib è stata allieva della Goldsmiths University di Londra (2007), della Chevening/KRSF (2007), della Cultural Leadership International (2010), ha ricevuto una borsa di studio per l’ISPA di New York (2010) ed è stata selezionata come protetta di Peter Sellars nell’ambito dell’iniziativa Rolex Mentor e Protégé Arts (2011). Zoukak ha ricevuto il premio Ibsen Scholarship (2012), il premio per il dialogo tra Europa e Medioriente della Fondazione Anna Lindh per la resilienza sociale e la creatività (2014), una borsa di studio Preamium Imperiale per i giovani artisti dall’Associazione delle Arti del Giappone (2017) e il premio della Fondazione Chirac per la Cultura in favore della Pace (2017).
Traduzione a cura del Centro Italiano dell’International Theatre Institute. La Giornata Mondiale del Teatro è un’iniziativa promossa, dal 1962, dall’International Theatre Institute Worldwide.
Laboratorio di scrittura Creativa – 4A e 4B del Liceo Artistico “Max Fabiani” di Gorizia
SINOSSI
La storia di Angela, una bambina deceduta a quindici anni, dentro l’indifferenza del manicomio, Angela è morta senza morire, e da anni rimbalza tra la polvere di un archivio dimenticato, chiedendo alle migliaia di destini infausti marchiati sulle cartelle: Ma quand’è che passa la mia vita, quella che non sono ancora riuscita a vivere?… La tematica del disagio mentale e della rivoluzione portata dalla Legge Basaglia, vista con gli occhi della gioventù di oggi. Tutto si svolge durante una visita presso l’ex Manicomio di Gorizia, i ragazzi della scolaresca in visita conoscono Angela, una bambina invisibile, e i suoi compagni prigionieri essi stessi del manicomio, creature visibili. Tutti sono prigionieri delle loro cartelle cliniche nel polveroso e puzzolente archivio dell’ex Manicomio; i visitatori entrano nel loro mondo e maturano la volontà di liberare le tante storie di cui partecipano inermi. In un intreccio tra storie passate e presenti, personaggi invisibili e visibili imprigionati nei loro destini, impotenti di fronte agli accadimenti, in una storia che si interroga su aspetti del passato e del presente in un continuo dialogo/confronto.
Motivazione della giuria
Esito drammaturgico di un percorso educativo approfondito e coerente sul disagio mentale e la memoria delle terribili condizioni vissute dai pazienti degli ospedali psichiatrici prima della Legge Basaglia, Bastava un abbraccio mette a confronto, tramite un’idea teatrale semplice e fantasiosa, un gruppo di ragazzi di oggi con i fantasmi di persone un tempo recluse nell’ex manicomio di Gorizia.
Nella scrittura collettiva, vivace e mai enfatica, si alternano fluidamente passaggi drammatici e umoristici, evocazione poetica e crudo realismo, sempre mantenendo un delicato equilibrio compositivo. Un esempio di teatro civile libero da ingombri retorici, fondato sulla conoscenza della storia e su una solida pedagogia degli affetti.
La soffitta, il baule, le foto ricordo, costituiscono per Giuseppe una vita alternativa da “rifugio” per fare fronte al dolore della perdita della madre e al rapporto conflittuale col padre. Il luogo segreto di Giuseppe nasce dalla necessità di adattare il vissuto al dolore, alla perdita di senso della vita e al disagio nei confronti degli altri. Ma tutto questo dona al testo una struttura drammaturgica sorprendente, che fa tesoro della creazione di un tempo e di uno spazio, specifici, su cui trova sostanza il linguaggio teatrale. La fotografia è l’anello di trasmissione delle emozioni e della memoria di un rapporto interrotto violentemente tra madre e figlio. Ma è anche l’immagine muta di uno scavo doloroso dentro la materia esistenziale in età adolescenziale, esposta ai turbamenti e ai silenzi di una vita da capire e da sostenere. Tra l’assenza e la presenza, nell’inconciliabile rapporto tra spazio segreto e spazio pubblico, in cui Giuseppe si dibatte, il tempo drammaturgico instaura un legame tanto forte e tanto fragile, attraverso l’Ora d’Oro, quella prossima al tramonto, che Giuseppe continua a fotografare così come aveva fatto sua madre. Giuseppe, fotografo dell’esistenza, in fondo sa che l’attimo fuggente, attraverso la foto, incolla gli strappi del tempo. Ma fino a quando il motivo ricorrente di stampo materno “Ti ho trovato!”, vissuto come soliloquio interiore nello spazio segreto della soffitta, non passa nella realtà, sulla bocca di un’altra donna, in questo caso Maria la compagna di scuola, il contatto tra irrealtà e realtà non potrà essere ripristinato. Il titolo ne predice l’esito finale, come una formula catartica. In mezzo, nello scioglimento dell’azione, ci sta anche il risanamento del rapporto padre-figlio. Questo passa ugualmente attraverso la fotografia. Un altro patrimonio della memoria costituito dalle foto scattate dal padre a madre e figlio per fissare momenti di vita che la malattia avrebbe inghiottito. Il testo costruisce così un interessante triangolo della memoria che, agitato in un primo momento dalla tempesta della vita, trova un ordine nella realtà attraverso il classico superamento della “prova”, fino al ricominciamento del battito del tempo quotidiano: il pallone che torna a rotolare nel tempo impreciso della giornata giovanile.
Liceo Linguistico “B. Secusio” di Caltagirone, Classe III BL
SINOSSI
Cinque studenti si riuniscono casualmente in un’aula abbandonata della scuola, perché discriminati da alcuni compagni bulli. Felipe è un ragazzo omosessuale, Selma è una straniera poliglotta, Ana è un’aspirante modella sovrappeso, Juan è un nerd con la passione per la tecnologia e Sol è una giovane forte e determinata, che vorrebbe diventare meccanico.
Una volta scoperti dal nuovo bidello dell’Istituto, gli alunni cercheranno di raccontarsi seduti in cerchio, improvvisando così una stramba terapia di gruppo, in cui ogni paziente pensa di avere il problema più importante da risolvere. Davanti alla reazione degli alunni, il bidello cercherà di far capire loro che tutti possono soffrire un disagio: “Ogni persona che vedi sta lottando una battaglia che non conosci”.
Colpiti dalle parole del bidello, i ragazzi decidono di creare un sito internet attraverso il quale risponderanno, in maniera anonima, a tutte le richieste di aiuto da parte dei compagni di scuola. A collaborare con la banda dei Discriminati Anonimi, arriveranno anche Leopolda e Leonarda, due sorelle gemelle affette da un disturbo dipendente di personalità.
E se fossero proprio i bulli a chiedere aiuto attraverso la pagina web? Può un soggetto discriminante soffrire tanto quanto colui che viene discriminato? E se il bidello nascondesse un segreto che solo la Preside conosce?
Dopo diversi colpi di scena gli alunni arriveranno alla consapevolezza di essere tanto diversi quanto uguali, poiché un disagio può dividere, ma anche, e soprattutto, unire.
Un posto segreto, a parte, che come tutti i luoghi-rifugio sa di abbandono. Un luogo clandestino addirittura della scuola, dove riconoscersi, tra disadattati e inadeguati, sigilla un nuovo modo di stare insieme, dove il rito terapeutico del raccontarsi coincide con il rito stesso del teatro. La mancanza di comunicazione e di accettazione dell’altro, di cui soffrono i protagonisti, diventa dibattito come una seduta psicanalitica collettiva.
Si cerca il dialogo, fare squadra tra giocatori che la società giudica di poco valore. Risiede qui il merito maggiore del testo “DiscriminatiAnonimi.it” che oltre a inventare un sorprendente nodo drammaturgico di scrittura, produce uno scarto ironico tra la situazione reale e quello che si vuole rappresentare. Il gruppo dei discriminati anonimi ha proprio il guizzo geniale di spazzare via ogni barriera discriminatoria con l’arma dell’ironia, svuotando di qualunque potere distruttivo le pressioni della mentalità comune. Il gruppo, mettendo in campo la condizione personale di disagio dei partecipanti, trova da sé una uscita che seppure alla lontana ricorda l’esperimento di catarsi della tragedia greca.
Deus ex machina il bidello. Figura anch’essa di margine, ma felicemente recuperata nella memoria di tutti i noi come il padre clandestino di tante generazioni scolastiche. Nel testo l’effetto “tragico” in chiave contemporanea si chiama web e l’indirizzo, che dà il titolo al testo, è la via verso una condivisione globale di un evento ugualmente clandestino, perché, sebbene sia accessibile a tutti, ognuno può accedervi in maniera anonima, compresa la preside della scuola.
L’iper-rifugio globale DiscriminatiAnonimi.it nasce quindi da una nutrita categoria di inadattati, dai gay agli emigrati, che, lungi dal ripetere i rituali comuni di discriminazione, forma una comunità parallela capace di ribaltare il destino, come nelle migliori rivoluzioni, seppure qui con la leggerezza e la freschezza del caso. Ma la sorpresa è raddoppiata nel momento in cui uno dei protagonisti, pur dichiarandosi disinteressato alla comunità dei discriminati, alla fine produce un altro livello drammaturgico del testo, il suo doppio in spagnolo. Felipe trascrive in altra lingua, come in un’altra differenza dell’ascolto, la storia del gruppo. Tutto questo per dirvi che chiunque ne abbia bisogno consulti pure, anche in una lingua straniera, il sito DiscriminatiAnonimi.it.
Messaggio dell’On. Lucia Azzolina, Ministro dell’Istruzione
Carissimi, il concorso “Scrivere il Teatro” è ormai una bella e importante consuetudine per la scuola italiana e per il Ministero dell’Istruzione. Il successo dell’iniziativa è sicuramente dovuto alla sua capacità di liberare le migliori energie creative di studentesse e studenti, sempre assistiti dal lavoro straordinario dei loro insegnanti. Di introdurli in un mondo, quello della drammaturgia, che ricopre un ruolo di primo piano nella nostra tradizione culturale.
Il Teatro è sempre stato anche uno degli strumenti con cui donne e uomini hanno letto la realtà. E oggi che, per via dell’emergenza sanitaria, una realtà del tutto nuova e inedita si è affacciata nella nostra quotidianità, entrando con forza anche nella vita scolastica, il Teatro può costituire uno strumento doppiamente importante per individuare nuove chiavi interpretative per il nostro presente.
L’evento di oggi ci permette di inserire una bellissima occasione all’inizio di questo anno scolastico così particolare, accrescendo e rinnovando la nostra voglia di far ripartire la scuola con tutta la passione, l’entusiasmo, la competenza e professionalità di cui è capace. Faccio le mie congratulazioni a tutti i vincitori e sono certa che il grande talento di tutti gli Istituti che hanno partecipato sarà un positivo esempio per tutte le studentesse e gli studenti d’Italia.
Prima del mio risveglio al teatro, i miei insegnanti erano già là. Avevano costruito le loro case e il loro approccio poetico sui resti delle loro vite. Molti di loro sono sconosciuti, o sono a malapena ricordati: hanno lavorato nel silenzio, nell’umiltà delle loro sale prove e nei loro teatri pieni di spettatori e, lentamente, dopo anni di lavoro e risultati straordinari, sono gradualmente andati via da questi luoghi e poi scomparsi. Quando ho capito che il mio destino personale sarebbe stato quello di seguire i loro passi, ho anche capito che avevo ereditato quell’affascinante, unica tradizione di vivere nel presente senza alcuna aspettativa, se non quella di raggiungere la trasparenza di un momento irripetibile; un momento di incontro con un altro nel buio di un teatro, senza ulteriore protezione se non la verità di un gesto, di una parola rivelatrice. La mia patria teatrale si trova in quei momenti di incontro con gli spettatori che arrivano nel nostro teatro sera dopo sera dagli angoli più disparati della mia città, per accompagnarci e condividere alcune ore, pochi minuti. La mia vita è fatta di questi momenti unici, in cui smetto di essere me stesso, di soffrire per me stesso, e rinasco e capisco il significato della professione teatrale: vivere istanti di pura, effimera verità, dove sappiamo che ciò che diciamo e facciamo, lì sotto le luci del palcoscenico, è vero e riflette la parte più profonda, più personale di noi stessi. Il mio paese teatrale, mio e dei miei attori, è un paese intessuto di questi momenti, in cui mettiamo da parte le maschere, la retorica, la paura di essere ciò che siamo, e uniamo le nostre mani nel buio. La tradizione teatrale è orizzontale. Non c’è nessuno che possa affermare che il teatro esista in un qualsiasi luogo del mondo, in una qualsiasi città o edificio privilegiato. Il teatro, così come l’ho recepito, si diffonde attraverso una geografia invisibile che fonde le vite di chi lo compie e il mestiere teatrale in un unico gesto unificante. Tutti i maestri del teatro scompaiono con i loro momenti di irripetibile lucidità e bellezza; svaniscono tutti allo stesso modo, senza alcuna altra trascendenza che li protegga e li renda noti. I maestri del teatro lo sanno, nessun riconoscimento è valido di fronte a quella certezza che è la radice del nostro lavoro: creare momenti di verità, di ambiguità, di forza, di libertà nel mezzo della grande precarietà. Nulla sopravvive, se non i dati o le registrazioni dei loro lavori, in video e in foto, che cattureranno solo una pallida idea di ciò che hanno fatto. Tuttavia, quello che mancherà sempre in quelle registrazioni è la risposta silenziosa del pubblico che capisce in un istante che ciò che accade non può essere tradotto o trovato all’esterno, che la verità condivisa è un’esperienza di vita, per qualche secondo, anche più diafana della vita stessa. Quando ho capito che il teatro era un paese in sé, un grande territorio che copre il mondo intero, è sorta in me una determinazione, che è stata anche il compimento di una libertà: non devi andare lontano o spostarti da dove sei, non devi correre o muoverti. Il pubblico c’è ovunque tu esisti. I colleghi di cui hai bisogno sono là al tuo fianco. Là, fuori da casa tua, c’è la realtà quotidiana opaca e impenetrabile. Lavorerai, quindi, da quell’apparente immobilità per progettare il più grande viaggio di tutti, per ripetere l’Odissea, il viaggio degli Argonauti: sei un viaggiatore immobile che non cessa mai di accelerare la densità e la rigidità del tuo mondo reale. Il tuo viaggio è verso l’istante, il momento, verso l’incontro irripetibile con i tuoi simili. Il tuo viaggio è verso di loro, verso il loro cuore, la loro soggettività. Tu viaggi dentro di loro, nelle loro emozioni, nei loro ricordi che risvegli e metti in moto. Il tuo viaggio è vertiginoso e nessuno può misurarlo o metterlo a tacere. Né qualcuno può riconoscerlo nella giusta misura. E’ un viaggio attraverso l’immaginazione della tua gente, un seme che viene seminato nelle terre più remote: la coscienza civica, etica e umana dei tuoi spettatori. Perciò, non mi muovo, rimango a casa, con i miei cari, in una quiete apparente, lavorando giorno e notte, perché ho il segreto della velocità.
Traduzione di Roberta Quarta – Centro Italiano ITI
Carlos Celdrán è un pluripremiato regista teatrale, drammaturgo, accademico e professore. Vive e lavora a L’Avana, Cuba e ha portato i suoi spettacoli in tutto il mondo.
Nato nel 1963 a L’Avana, Carlos Celdrán ha affinato il suo amore e la sua esperienza del teatro presso l’Istituto Superiore delle Arti dell’Avana, dove ha conseguito una laurea in Studi delle Arti dello Spettacolo. Dopo essersi diplomato a pieni voti nel 1986, inizia a lavorare prima come consigliere residente, e in seguito come regista residente per il Teatro Buendía all’Avana.
Ha ricoperto questo ruolo fino al 1996, quando decide di creare il proprio gruppo teatrale, il famoso e apprezzato Teatro Argo. Con sede a L’Avana, Cuba, il Teatro Argo ha conquistato una grande fama con le sue interpretazioni di classici europei, di opere teatrali latino-americane contemporanee e di produzioni originali sotto la direzione esperta di Carlos Celdrán.
Gli spettacoli del Teatro Argos hanno cercato di dare nuova vita al canone del teatro europeo moderno, con spettacoli di Brecht, Beckett, Ibsen e Strindberg che portano la cultura e i gusti europei a un pubblico latino-americano. Il Teatro Argos ha realizzato anche un grande lavoro di promozione dei drammaturghi cubani, portando in scena opere di artisti locali come Gonzalez Melo. È questa fusione di diverse culture che ha portato il Teatro Argos, uno dei più importanti gruppi teatrali cubani, ad essere acclamato oltre i confini nazionali. Il loro celebre laboratorio di recitazione, che cerca di trovare un linguaggio comune per gli artisti, è riconosciuto come un’iniziativa capace di mettere il mondo insieme.
Il punto culminante dell’esistenza del teatro è stata la produzione intitolata Ten Million, un’opera teatrale scritta e diretta dallo stesso Carlos Celdrán. Questa pièce ha ricevuto il plauso della critica, ed è stata messa in scena sia a Cuba che a livello internazionale. Il loro spettacolo più recente Misterios y pequeñas piezas nel 2018, anch’esso scritto e diretto da Carlos Celdrán, è stato anch’esso accolto molto bene. Questi sforzi per Cuba e il teatro internazionale hanno portato a Carlos Celdrán numerosi riconoscimenti e premi. Ha vinto il Cuban Theatre Critics Award nella categoria Best Staging in più occasioni – ricevendo il premio per ben 16 volte dal 1988 al 2018. Oltre a questo successo di critica, ha anche ottenuto un importante riconoscimento dal suo paese e dal mondo, ricevendo la Distinzione Nazionale della cultura cubana nel 2000 e il Cuba National Theatre Award nel 2016. Durante questa straordinaria carriera, Carlos Celdrán è rimasto impegnato per ispirare e aiutare gli altri, lavorando come professore presso istituzioni di alto livello a Cuba, in Sud America e in Europa. Egli stesso ha costantemente lavorato per migliorare e approfondire le sue conoscenze, conseguendo vari Master nel 2011 dall’Università Rey Juan Carlos di Madrid. Le capacità di insegnamento di Carlos Celdrán l’hanno fatto entrare nella Facoltà dell’Istituto Superiore d’Arte Cubana, dove ha insegnato per più di 20 anni, ed è stato a capo del corso di Laurea Magistrale in regia dal 2016, trasmettendo le sue conoscenze alle future generazioni di creatori teatrali cubani. Allo stesso tempo, la sua espressione artistica continua a trovare forma nella regia e nella drammaturgia con il Teatro Argos.
Traduzione di Roberta Quarta – Centro Italiano ITI
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